È sufficiente gettare uno sguardo sulla cartina statistica posta fronte alla pagina seguente, per rendersi conto come la quasi totalità della stampa periodica prodotta dagli anarchici italo-americani, si trovi concentrata negli stati che si affacciano sulla costa atlantica nord-orientale dell’Unione ed in quelli che stanno loro immediatamente a ridosso. Il solo stato di New York ne assorbe, infatti, quasi il 70% del totale; mentre il restante si trova in pratica distribuito nei soli stati del New Jersey, Massachussets, Rhode Islands e, nell’immediato retroterra, del Vermont e della Pennsylvania. Se si eccettuano la Florida e la California — due località che per diversi motivi, non esclusa la mitezza del clima, del tutto affine a quello mediterraneo, costituirono un tradizionale punto di richiamo per gli emigrati italiani — praticamente nulla può dirsi prodotto in tutto lo sconfinato territorio che, partendo dai confini occidentali del Maryland e dell’Ohio, si estende fino alla costa del Pacifico.
Il fenomeno — che non è conseguente a precise scelte politiche (costituzione di centri di propaganda insurrezionale in località ritenute particolarmente idonee, per la presenza di un forte movimento operaio o anche in considerazione della maggiore permissività delle leggi locali) — riflette il corrispondente sbilancio distributivo che si riscontra rispetto alle principali zone di insediamento degli italiani. È infatti ben noto e fenomeno fin troppe volte rilevato da sociologhi e storici dell’emigrazione, perché sia il caso d’insistervi ulteriormente in questa sede, come la maggioranza degli italiani rinunciasse ad affrontare le difficoltà e le spese di viaggio verso l’interno e si arrestasse nelle città della costa e in quelle di transito, finendo col sovrappopolare i minori centri atlantici, dove esistevano opifici e miniere. Il New Jersey in particolare, col centro notissimo di Paterson, divenne uno dei maggiori punti di richiamo dell’emigrazione italiana; e così la Pennsylvania, da dove giungeva un’alta richiesta di mano d’opera straniera, da impiegare nelle miniere di carbone.
A quale data poi, risalga l’inizio del processo di penetrazione e di progressiva espansione dell’anarchismo negli ambienti dell’emigrazione italiana, non è certo possibile stabilire con esattezza; resta comunque difficile supporlo già avviato, in forma, perlomeno, organica e sistematica, in epoca anteriore agli anni ’80, prima cioè che avesse inizio, come fenomeno di massa, il grande esodo transoceanico dei lavoratori italiani [1]. Nessuna traccia concreta è, in ogni modo, rimasta dell’eventuale lavoro politico svolto fra i connazionali emigrati, da quel ristretto nucleo di profughi internazionalisti, giunto negli Stati Uniti per sfuggire alle repressioni che, in Italia, erano seguite all’episodio del Matese (1876) e all’attentato di Passanante (1878) [2]. Per trovare i segni di un’attività anarchica in qualche modo articolata, bisogna infatti giungere al 1885, anno in cui si costituì in New York quel «Circolo Comunista Anarchico Carlo Cafìero» [3] — il più antico di cui si abbia conoscenza — fattosi più tardi editore del periodico L’Anarchico. In quello stesso anno, un gruppo si era formato anche a Chicago [4], un’altro centro dove l’attività degli anarchici dovette rivelarsi, fin dall’inizio, particolarmente intensa e vivace, se nel genn. 1893, i redattori de II Grido degli Oppressi di New York decidevano di trasferirvisi, «colla speranza d’aver la cooperazione d’un numero maggiore di compagni» [5]; un terzo gruppo, infine, veniva segnalato, nel 1887, a Orange Valley, nel New Jersey [6].
È tuttavia solo nel corso del successivo decennio, che ebbe inizio un reale processo di espansione. Rinforzatosi quantitativamente, in seguito alle nuove ondate emigratorie di massa determinatesi dopo il 1890, l’anarchismo italo-americano poté contare, in quell’arco di anni, anche sulla qualificante presenza di alcuni fra i più noti esponenti rivoluzionari, giunti negli Stati Uniti per avviarvi un vasto lavoro di propaganda e di coordinamento delle attività libertarie rimaste, fino a quel momento, slegate e inconcludenti. Saverio Merlino, che vi soggiornò alcuni mesi durante il 1892, portò avanti un discorso politico, basato fondamentalmente sull’intervento in difesa dei diritti degli emigrati e sull’aperta denuncia dello sfruttamento della mano d’opera straniera. Tracciando un bilancio provvisorio dei risultati apportati dall’intensa attività proselitistica dell’agitatore italiano, l’organo anarchico newyorkese II Grido degli Oppressi sottolineava, con soddisfazione, che «noi abbiamo ormai gruppi già costituiti a New York, Chicago, Paterson, West Hoboken, Brooklyn, Orange Valley, Boston, ed altri ne sono in formazione in Pittsburgh, Baltimore, Filadelfia ed in altre località» [7].
Ad integrare questo vasto lavoro di propaganda provvide, tre anni più tardi, Pietro Gori, che percorse tutto il Paese, da New York a San Francisco, tenendovi oltre 400 conferenze, in italiano, francese ed inglese [8] e contribuendo alla fondazione della Questione Sociale di Paterson. Infine, subito prima dello scadere del secolo scorso, anche lo stesso Malatesta acconsentì, sollecitato dai compagni nordamericani, a trascorrere alcuni mesi di propaganda negli Stati Uniti, dove si adoperò, in particolare, per imprimere un orientamento federalista al locale movimento, ormai decisamente convergente verso quelle posizioni antiorganizzatrici, che ne costituiranno poi, la linea di tendenza predominante [9].
In effetti, i risultati di tutta l’intensa campagna propagandistica svolta nel corso dell’ultimo decennio del secolo scorso, si rivelarono, sotto il profilo organizzativo, alquanto deludenti [10]. La situazione di isolamento in cui era venuto a trovarsi l’emigrato italiano, per l’ostacolo della lingua ed il clima di diffidenza che lo circondava, aveva reso estremamente difficile la sua ambientazione nel mondo americano ed altrettanto improbabile la possibilità di un suo inserimento nelle Unioni operaie. Il disinteresse delle organizzazioni sindacali, che mai tentarono di tutelare concretamente gl’interessi dei lavoratori immigrati [11], ostacolò ulteriormente la formazione di una coscienza di classe e, al tempo stesso, contribuì ad aumentare la sfiducia nelle organizzazioni — non importa se politiche o sindacali — ed i pregiudizi verso ogni forma di lotta e di rivendicazione, che in qualche misura limitasse l’azione individuale [12].
Questo stato di cose giustificava pertanto l’insofferenza, ostentata da strati sempre più larghi della base del movimento, verso schemi organizzativi precostituiti e considerati inutili sovrastrutture, essendo sufficiente a garantire solidità e continuità operativa all’attività del movimento, quel vincolo di solidarismo che di fatto si sviluppa dalla coscienza di appartenere ad una comunità, i cui membri possono tutti riconoscersi sulla base della comune matrice ideologica [13]. Il divario fra «organizzatori» e «antiorganizzatori», fattosi via via più marcato, inevitabilmente degenerò, poco prima dello scadere del secolo scorso, in aperto conflitto, rivelando così l’irriducibilità delle due opposte concezioni della lotta politica. Negli Stati Uniti, dove le due tendenze si differenziarono in forma più marcata che altrove e dove più che altrove seguirono autonomamente un proprio processo di sviluppo, il momento di rottura è precisato da uno storico scontro polemico che durante i primi mesi del 1899, vide a diretto confronto Errico Malatesta e Giuseppe Ciancabilla, all’epoca i portavoce più autorevoli e intransigenti delle due opposte correnti.
Giornalista brillante, ex redattore dell’Avanti! ed attivista del Partito Socialista, dalle cui file si era staccato nel 1897, con una clamorosa rottura, G. Ciancabilla era giunto negli Stati Uniti sui primi del 1899, trovando impiego presso la redazione della Questione Sociale di Paterson [14]. Fervente sostenitore, fino a pochi mesi addietro, della necessità di dare al movimento una solida base organizzativa [15], Ciancabilla preferì adeguarsi, una volta preso contatto coi compagni insediati in nordamerica, ad una situazione già di fatto esistente e favorire, cioè, anziché contrastare, quella linea di tendenza antiorganizzatrice, che nella pratica si andava rivelando come la più aderente alla mentalità degli ambienti radicali italo-americani.
Tali vedute determinarono un violento scontro polemico fra il giovane pubblicista romano ed Errico Malatesta — che proprio in quello stesso periodo aveva assunto di persona la direzione della Questione Sociale e portava avanti una intensa campagna per gettare le basi di un movimento organizzato anche fra l’elemento d’oltreoceano — conclusosi con la decisione di Ciancabilla di declinare l’impegno redazionale e di dare vita a un nuovo periodico, nel quale avrebbe potuto sviluppare più organicamente le nuove concezioni tattiche, maturate in quell’arco di mesi. Il 16 sett. 1899, nasceva così il foglio antiorganizzatore L’Aurora [16], nel quale troviamo anticipati i temi centrali di quella propaganda antiorganizzativa, che pochi anni più tardi L. Galleani riprenderà, con efficacia indubbiamente maggiore, dalle colonne di Cronaca Sovversiva.
Diversi e contrastanti sono i giudizi che si possono oggi storicamente dare nei confronti delle «responsabilità» politiche di quegli esponenti rivoluzionari che incoraggiarono questa svolta di tendenza che spezzava un’unità operativa (o che, quantomeno, non tentarono d’impedirne l’estrema radicalizzazione); e inopportuno mi sembra, in questa sede, insistere su un tema che ha ancora una sua attualità polemica. È inconfutabile, in ogni modo, che la propaganda di questa concezione tattica dell’intervento politico, fra i lavoratori italiani dei vari stati dell’Unione, determinò un fenomeno di rapida crescita, se non qualitativa certamente quantitativa, del movimento. Il grado di popolarità ottenuto da una corrente di idee, rispetto ad altre rimaste minoritarie, di per se comunque non è sufficiente a qualificarne i contenuti. Nel caso specifico, è forse lecito affermare che se tale genere di propaganda riuscì a imporsi con facilità, ciò fu dovuto alla potenziale disponibilità di larghi strati del proletariato italo-americano a recepire e a fare propria un tipo di concezione politica, che non urtava, nonostante il suo formale radicalismo rivoluzionario, le loro aspirazioni sostanzialmente liberaliste.
È certo, in ogni modo, che il «galleanismo» (come viene oggi definita, dal nome del suo esponente più qualificato, la versione nordamericana dell’anarchismo antiorganizzatore), si configura come il tratto più tipico del movimento libertario italo-americano; ed a confronto delle altre tendenze minoritarie, esso seppe altresì dimostrare una eccezionale capacità di sopravvivenza, nonostante l’involuzione qualitativa subita a partire dagli anni venti. Da parte loro, gli anarchici «organizzatori» — nelle cui mani era restata la gestione della Questione Sociale, trasformatasi, dopo la sua forzata cessazione, in L’Era Nuova— seppero mantenere ben salda la «roccaforte» di Paterson; ma incapaci di rompere il loro isolamento ideologico, finirono con l’accentuare le loro posizioni centralizzatrici e scivolare, negli anni immediatamente posteriori al I Conflitto, su posizioni filo-bolscevizzanti e «terzointernazionaliste».
Ben scarsa fortuna ebbe, infine, negli Stati Uniti, l’individualismo neo-stirneriano e quello «d’azione», di stampo ravacholista. Non qualificato da alcun elemento di un qualche rilievo (eccettuata forse, la presenza in territorio americano di Libero Tancredi, intorno al 1909-10) e combattuto per il suo verbalismo violento e inconcludente, dagli stessi anarchici di altre tendenze, esso esaurì nell’arco di pochi anni (all’incirca fra il 1908 e lo scoppio della Grande Guerra) il suo sforzo d’inserirsi all’interno del movimento libertario, dopo aver prodotto pochi stampati, difficilmente qualificabili sul piano politico [17].
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Con lo scoppio del I conflitto e l’entrata in guerra degli Stati Uniti, hanno inizio gli anni più difficili per la storia del movimento anarchico italo-americano, divenuto oggetto di una sistematica campagna persecutoria, in conseguenza dell’appoggio da questo dato alle agitazioni operaie — scoppiate un po’ ovunque, negli stati dell’Unione, per effetto della grave depressione economica che aveva colpito il Paese — ed al rifiuto di numerosi anarchici di assoggettarsi alla legge di coscrizione militare obbligatoria (Selective Military Conscription Bill) .votata dal Congresso il 17 mag. 1917.
Gli arresti indiscriminati, seguiti dalla deportazione in massa dei sovversivi di ogni nazionalità [18], la soppressione violenta di tutta la stampa radicale, gli abusi ed i crimini commessi liberamente in spregio ad ogni garanzia costituzionale, dalla polizia americana [19], determinarono inevitabilmente, durante la fase più acuta della reazione wilsoniana (1919-20), lo schiudersi di un periodo di clandestinità, nel corso del quale tuttavia, la continuità delle attività operative degli anarchici non risultò del tutto compromessa, come attestano le molte pubblicazioni diffuse alla macchia in quello scorcio di tempo (La Jacquerie di Paterson, L’Ordine di New York, etc.).
La fondazione del periodico L’Adunata dei Refrattari, avvenuta nell’apr. 1922 per iniziativa di un gruppo galleanista superstite della reazione wilsoniana, segnò l’avvio di una fase di ripresa, anche se lo sforzo. ricostruttivo restò in larga misura invalidato da una serie di violente polemiche, dilagate in quell’arco di anni all’interno del movimento. L’eccezione sollevata da più parti sul sistema di conduzione dell’Adunata e sull’attendibilità politica di alcuni membri del suo gruppo editore, comportò un vero fenomeno di secessione (Convegno nord-americano di Pittsburgh, del 25-27 dic. 1925), con la formazione di un’ala dissidente, le cui componenti si riconobbero più che sulla base di un’affinità programmatica, su quella di una comune critica alla prassi, giudicata «antilibertaria», dei gruppi adunatisti. L’impegno concordato da questa sorta di «fronte unico» anarchico, per sviluppare un lavoro d’intervento politico autonomo e alternativo a quello dell’Adunata, in pratica non sfociò in iniziative di un qualche rilievo. I fogli di propaganda, creati in tale prospettiva dai gruppi separatisti, durante la seconda metà degli anni venti, non seppero d’altronde presentare alcun programma chiaramente sostitutivo di quello portato avanti dall’organo galleanista, la cui impostazione ideologica, d’altro canto, non era mai stata messa in discussione. In quanto organo degli «antiorganizzatori», L’Adunata allargò anzi la sua influenza, giungendo a configurarsi — come rilevava in una circostanza, uno storico dell’anarchismo — non solo quale espressione di una parte dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti, ma altresì come «la voce di una tendenza del movimento anarchico internazionale, nel quale del resto aveva larga diffusione» [20].
L’unico discorso politico realmente alternativo a quello portato avanti dall’Adunata, ci è offerto, durante gli anni compresi fra le due guerre, dal gruppo che si raccoglieva attorno al Martello, il battagliero organo ad indirizzo anarco-sindacalista, diretto e animato per oltre un quarto di secolo, da Carlo Tresca, una delle più prestigiose figure di agitatori libertari, prodottesi negli ambienti rivoluzionari degli italo-americani. Tale periodico fu il solo forse, capace d’inserirsi con realismo nel vivo delle lotte operaie, anche se al pratico conseguimento di tale obiettivo dovette spesso sacrificare la salvaguardia dei principi, cedendo pertanto sul terreno del compromesso ideologico [21]. Per tali posizioni, il suo gruppo editore si ritrovò ben presto in aperto antagonismo con tutti quei settori del movimento, che formatisi alla scuola del vecchio anarchismo «eroico» e intransigente, non potevano accettare il pragmatismo rivoluzionario del foglio di Tresca, il cui indirizzo venne considerato — almeno in qualche caso limite — come estraneo all’orbita d’intervento libertario.
Al di fuori e al di sopra delle molte beghe intestine e degli interminabili scontri polemici, gli anarchici italoamericani seppero dar prova comunque, di ritrovare una unità d’azione nei momenti che richiedevano il massimo impegno militante. Ne sono un esempio concreto la campagna di difesa per Sacco e Vanzetti e la lotta contro il fascismo in Italia: due interventi che riuscirono a mobilitare in forma massiccia e a dispetto di ogni interna divergenza più o meno formale, la totalità delle forze libertarie, pronte a riconoscersi in blocco sulla base della comune matrice antiautoritaria, una volta di fronte alle minacciose congiure della reazione internazionale. La lotta antifascista in particolare — che per la complessità del suo intreccio cospirativo, richiede un’esposizione ed un’analisi più ampia di quanto sarebbe possibile svolgere in questa sede — costituì anzi, uno dei momenti più vivi e interessanti, nella storia dell’intervento politico del movimento libertario italo-americano, divenuto, fino alla caduta del Regime mussoliniano, il principale punto di sostegno per le attività sovversive condotte in Europa dai correligionari fuorusciti e, più direttamente, un importante centro operativo.